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Fibrosi Cistica: La storia di Beatrice

INTRODUZIONE

Sono al mare, sola, il venticello soffia leggero sul mio volto, percepisco una bella sensazione di respirare a polmoni aperti, la fatica che di solito facevo per fare pochi passi, qui mi sembrava svanire!!

Ad un tratto mi fermo… il suono delle onde, il paesaggio quasi desertico, la sua quiete e i raggi del sole, mi fanno riflettere. Una vena malinconica mi assale perché so che questa bella sensazione purtroppo durerà così poco… ma poi un bel pensiero mi ritorna in mente: dico a me stessa che quell’attimo non capita poi a tutti… visto che per la maggior parte delle persone cosiddette “normali” respirare è una cosa naturale e non si rendono neanche conto di farlo perché a differenza mia, non hanno mai avuto la famosa “fame d’aria”.

Il mare ascolta…e non fa domande. Fortunatamente dista solo una ventina di km da casa mia e spesso mi piace andarci anche inverno. Questo mi permette di spingermi oltre ai confini del mio paese…. oltre i miei pensieri, oltre la mia casa, che ormai mi pareva più una “casa di cura”.

A questo proposito volevo aprire una “piccola parentesi”.

 ACCENNI DELLA MIA STORIA – PREMESSA

 Mi chiamo Beatrice Stipa e vorrei condividere con voi la mia storia di “Resurrezione”.

All’età di undici anni dopo una grave broncopolmonite mi diagnosticarono la Fibrosi cistica.

Questa malattia genetica detta anche “mucoviscidosi”, per la sua caratteristica principale della densità del muco, implica un impegno continuo a guadagnarsi, la vita giorno per giorno, attraverso ore di sedute di fisioterapia respiratoria, farmaci inalatori e antibiotici; fino a quando le cure a casa non bastano più, e a quel punto si passa ai ricoveri ospedalieri.

Durante questi ricoveri ho avuto però il piacere di conoscere tante persone piene di vita, voglia di combattere, che mi hanno aiutato ad affrontare la malattia con ironia e spensieratezza. Nonostante tutti i problemi, i cicli di antibiotico in vena e le lunghe degenze in ospedale, assieme ci davamo coraggio. Le battute fra noi ragazzi non mancavano mai e questo alleggeriva parecchio il nostro problema. L’ospedale era diventato una sorta di seconda casa. Ad essere sincera non mi ha mai pesato così tanto il pensiero di andare a ricovero, visto che le conoscenze, le amicizie, le libere uscite dall’ospedale, la nostra privacy nelle stanze singole… bilanciavano in positivo la negatività del ricovero. Oggi dopo aver frequentato diversi ospedali e diversi reparti posso veramente dire, che nonostante la sofferenza della malattia, il ricovero in quel reparto di Fibrosi cistica di Verona, è davvero il migliore che si possa fare. Ormai avevo fatto l’abitudine ad andarci periodicamente e non avrei mai pensato che sarebbe arrivato il giorno in cui io avessi potuto farne a meno.

Ogni giorno da una “disgrazia” può nascere una grazia perché nulla è impossibile a Dio.

Io e gli altri trapiantati vogliamo essere testimonianza per tutti che Dio agisce, anche dove noi non credevamo che si potesse arrivare.
Per questo però non dobbiamo credere che esistano solo i miracoli “grandi” ma vedere in ogni giorno un miracolo.
Camminare, fare una chiacchierata, mangiare, dormire, lavarsi, azioni che ogni giorno facciamo automaticamente, non sono da dare per scontate.
Riprendere a compiere queste semplici azioni di vita quotidiana è una gioia che non ha paragoni.

LA DIAGNOSI DI FIBROSI CISTICA

 Quando mi diagnosticarono la fibrosi cistica avevo undici anni. Questa malattia era una parola nuova per me e la mia famiglia… Non ne avevamo mai sentito parlare. Dopo una serie di esami presso la pediatria di San Donà di Piave che mi teneva in cura per una grave broncopolmonite decisero di inviarmi al centro “Fibrosi Cistica” di Verona.

Fortunatamente, dopo un mese e mezzo di ricovero a San Donà di Piave ero riuscita a riprendermi prima di arrivare al ricovero nel reparto Fibrosi Cistica di Borgo Trento, a Verona. Quando arrivai lì, non ero per niente preoccupata, nonostante mia mamma non  mi avesse ben spiegato che cosa andassimo a fare.

Il reparto Fibrosi cistica nel 2001 era molto diverso da quello attuale ma le persone che vedevo allora sono sempre molto giovani come quelli di oggi. Al mio ingresso c’erano molti ragazzi adolescenti e pochi adulti appesi alle flebo, come a un filo… Quel filo che era così fragile. Sembravano diversi da me e mai avrei pensato di essere una di loro.

La mia degenza durò poco più di una settimana. Una settimana di esami di ogni tipo, test del sudore, raggi X, TAC, fisioterapia. In quel periodo mi sentivo bene e vivevo tutto come un “gioco”.

La prima volta che ho fatto la fisioterapia ero con una signora così minuta e dolce che mi sembrava una bambolina con cui giocare. Si chiamava, e già il nome mi suonava buffo e subito la presi in simpatia.

Quando arrivava le saltavo addosso e poi la nostra mezz’oretta di fisioterapia passava cercando di soffiare dentro la PEP-MASK per espettorare l’eventuale muco. Fortunatamente in quegli anni non avevo ancora tanto bisogno del drenaggio quanto negli anni successivi, in cui era diventato indispensabile come bere acqua.

A parte la fisioterapia, avevo fatto amicizia con molti pazienti e familiari, erano tutti simpatici e ci avevano dato le direttive generali del reparto. Indovinate quale fu la prima cosa che feci? Il permesso d’uscita per far provviste al supermercato di fronte all’ospedale il rinomato “MIGROSS”, per recuperare i chili persi con le galatine e i Kinder cereali.

Al contrario del reparto di pediatria di San Donà di Piave per fortuna, la le distrazioni non mancavano.

Un momento impegnativo era la scuola. Quasi tutti i giorni la frequentavo e il maestro faceva il possibile per farmi stare al passo con i miei compagni di classe, facendomi fare temi e che poi li faceva correggere da un’altra professoressa, per poi inviarli alla mia insegnante a Musile di Piave.

Ricordo altri bei momenti di svago, le nostre cene nella cucina dell’ospedale… quando qualche brava mamma si metteva a cucinare per tutti.

Quelli sì che erano bei tempi! La compagnia era fondamentale durante quelle lunghe degenze, e i medici in quegli anni non ci vietavano di stare insieme.  Devo dire che come primo impatto con quel nuovo mondo non mi sembrò così malvagio!

Quasi un mese dopo, la lettera di dimissioni arrivò a casa nostra.

La diagnosi era proprio fibrosi cistica. 

È solo un nome non vuol dir nulla … “Io sto bene ora mamma” così le dissi… e lo pensavo veramente.

Il potere di quella lettera però era più grande delle parole di sua figlia e lei cominciò una brutta fase di depressione.

Tutte le enciclopedie, e le persone più esperte a cui ci avevano consigliato di rivolgerci, in sostanza dicevano la stessa cosa. La fibrosi cistica è una malattia genetica degenerativa grave fra le più diffuse che colpisce i polmoni, pancreas, fegato causando l’insufficienza respiratoria e danni irreversibili che nei casi più gravi possono portare al ricorso di un trapianto. L’età media è di 35/40 anni.

Tutte parole molto vaghe per noi che però avevano tutte un quadro molto spaventoso.

La mia vita di scolara, figlia e sorella, amica proseguì comunque e devo dire che non mi sentivo per niente diversa dai miei coetanei. I medici mi avevano consigliato di proseguire i day hospital a Verona con una ricorrenza non molto ravvicinata e in base al mio stato di salute. Durante le visite comunque quasi sempre i medici ci rassicuravano dicendo che nella sfortuna di avere quell’incrocio genetico (mia madre di Jesolo e mio padre della provincia di Messina), la mia era una forma lieve e colpiva solo l’apparato respiratorio.

 Al tempo avevo solo qualche bronchiettasie, tosse, una spirometria normale. Eppure la malattia, seppur non si mostrasse nel mio aspetto, stava lavorando… nonostante la mia apparente normalità (andavo a scuola, mangiavo, dormivo, andavo a danza, uscivo con gli amici…).

I PRIMI PROBLEMI

A quattordici anni, attraverso la lastra hanno riscontrato la mia prima atelectasia.

Questo nome così impronunciabile per me, voleva dire che una parte del bronco si era collassata a causa dell’ostruzione del muco.

Inizialmente ero un po’ preoccupata, poi la preoccupazione si trasformò in energia positiva. Quanto bastava per darmi la carica che serviva per affrontare il mio primo “combattimento” serio con la Fibrosi cistica. Questo perché la soluzione al problema era di incrementare le sedute di fisioterapia anche fino a 10 volte al giorno. La fisioterapista che mi aveva seguita durante quel ricovero, era una ragazza molto determinata.

Nonostante fosse un po’ severa, come dicevano molte voci, devo ringraziare soprattutto lei per avermi trasmesso altrettanta determinazione nel volermi curare. Mi aveva fatto capire la serietà della situazione, e che se avessi seguito con costanza e impegno le cure, potevo superare molti ostacoli. Ricordo che mi aveva preparato un bel programmino col pennarello colorato per un totale di sei/sette sedute drenanti in tutte le posizioni e con tutte le tecniche possibili (anche a testa in giù). La pazienza, la costanza, l’impegno e la paura di dover ricorrere al bronco-lavaggio o di non riuscire a guarire da quel tappo di muco, alla fine mi hanno salvata. Dopo due settimane di cure intense stavo benissimo, e persino la mia Fisioterapista e i medici si erano congratulati con me: erano tutti stupiti dalla volontà di una ragazzina della mia età. Avevo raggiunto il 90% di fev 1 di spirometria e non avevo più escreato…

Purtroppo si sa le cose belle durano poco. Infatti il mio entusiasmo per quella mia vittoria era stato frenato dalle parole del Primario che disse che avrei dovuto iniziare a fare almeno un ricovero l’anno per tenere la malattia sotto controllo.

Inoltre il lobo superiore destro dei miei polmoni sarebbe sempre rimasto un possibile “ricettacolo di infezioni” e accumulo di secrezioni e batteri visto che il danno non poteva essere guarito.

Oltre alla mia situazione clinica anche quella del reparto di “Fc” era mutata. Esistevano nuove regole appese ai muri e alle bacheche. Era diventato obbligatorio l’uso della mascherina negli spazi comuni e soprattutto evitare contatti con i pazienti in isolamento.

Niente però, poteva fermare la voglia di conoscere persone con la tua stessa malattia, coi tuoi stessi sogni e problemi e insieme farci compagnia, e così ci trovavamo all’esterno delle mura ospedaliere.

Durante la lunga degenza dell’atelectasia, mia zia Elsa, che aveva sostituito mia mamma per farmi assistenza, era rimasta un po’ impressionata dal “settore A” dove stavano le persone che erano più gravi. Persone che avevano il supporto dell’ossigeno oppure avevano contratto germi resistenti. I germi resistenti erano la cosiddetta “CEPACIA  E  STAFFILO METICILLINO” per cui non esistevano antibiotici.

C’era il ricovero che trovavi il gruppo che ti coinvolgeva e ci si trovava a bere un caffè, oppure c’era il ricovero che non usciva nessuno. Alcuni dei ragazzi che continuavo a incontrare a ricovero sono rimasti miei amici, altri purtroppo non ce l’hanno fatta.

Di trapianto in quegli anni era raro sentirne parlare; sembrava un passo enorme, impensabile, al confine con la morte.

Intanto la mia vita scolastica e affettiva procedeva bene. A scuola ero migliorata, rispetto al biennio delle superiori, il triennio è stato più piacevole e semplice. I professori erano a conoscenza della mia malattia e

quindi la mia assenza per ricovero era sempre giustificata. I compagni mi passavano gli appunti che avevo

perso e si ricominciava.

Due settimane all’anno o più di ricovero non erano niente in confronto alla bellezza di riuscire a star bene. Riuscivo a trovare il tempo per la danza, per studiare e per uscire, come tutte le ragazze, nonostante la fisioterapia, le medicine da prendere e i ricoveri.

Fino all’anno della maturità sono stata abbastanza bene nonostante tutto… riuscivo ancora a prender fiato. 

Gli anni passano per tutti e chi prima e chi dopo, comunque avremo dovuto affrontare la nostra battaglia.

Infatti durante l’anno della maturità la mia amica FC “si pronunciò ad alta voce”, così cominciò la mancanza

di fiato a fare le scale, poi anche a riposo, la tosse carica di muco come con la mia prima broncopolmonite ad undici anni.

Ricordo che durante il ricovero dormivo sonni profondi e quasi le infermiere non riuscivano a svegliarmi! Era la seconda volta che avevo utilizzato il supporto dell’ossigeno e questo ovviamente faceva paura a mia mamma che era sempre lì con me, e a tutti.

Flebo, fisioterapia, e il sostegno di medici, infermieri e familiari ancora una volta mi avevano salvata. Non ho molti ricordi dettagliati di quel ricovero, se non che avevo un sonno e una stanchezza immensa dovuta alla febbre e all’infezione, ricordo però di una ragazza. Mi aveva colpito perché andava in giro con un carretto con una specie di sacchetto collegato ad un tubo. Non capivo cosa fosse quel liquido rosso che scorreva nel tubo e soprattutto ero spaventata perché la sentivo urlare dal dolore. Con gli anni feci la sua conoscenza, assieme a sua mamma, ha passato una grande sofferenza per poi esser ricompensata e festeggiare 10 anni di trapianto questo novembre 2015!

DOPO LA MATURITA’

Tornai a casa che era ancora estate e una volta assolti tutti i miei impegni di studentessa, mi sarei goduta la spiaggia di Jesolo con il sole, gli amici, e nient’altro.

Avevo tanto bisogno di quella bella sensazioni di benessere che solo l’estate sa regalare.

In quel periodo frequentavo anche un ragazzo ma non stavamo ancora insieme:  un tipo particolare, mi intrigava. Della mia malattia ne ho parlato subito con lui, non appena mi aveva chiesto la causa di quella brutta tosse… Ma non ci aveva dato molta importanza!

Qualche anno dopo ci siamo ritrovati e stavolta come fidanzati; quindi inevitabilmente ha dovuto entrare nel mio mondo ed affrontare la malattia. Nonostante questo e i suoi 9 anni di più, siamo sempre riusciti ad uscire, a divertirci, ma lui non sembrava mai soddisfatto. Riconosco che si è preso cura di me quasi fino alla fine.

In 2 anni che siamo stati assieme, senza mai saltare un giorno, ne abbiamo passate tante. Proprio grazie alla mia malattia che si era creata una particolare intesa fra noi, sviluppando un forte senso di protezione da parte sua, che assieme alla sua forte gelosia di natura, ha portato anche ad un nostro distacco, ed io ho continuato la mia battaglia da sola.

E’ stata durissima devo dire, anche perché lui mi ha lasciata in ospedale durante un ricovero per pneumotorace, dopo l’ennesimo battibecco con mia madre riguardo le mie condizioni.

Talvolta le cose che sembrano piacerci molto si rivelano dannose per la nostra salute. I suoi difetti avevano superato i limiti per un rapporto vivibile.

 Dopo di lui nessuno. Nessuno con cui stavo bene e al momento la malattia mi prendeva tutte le mie forze per poter pensare di ricominciare. Solo un ragazzo che avevo conosciuto tramite amici aveva perso la testa per me, ma non io per lui. Per farvi un esempio; è venuto in treno, dopo il lavoro a trovarmi in ospedale a capodanno preparandomi la cena , con tavola imbandita di tutte le migliori pietanze; alla fine si propose addirittura di fermarsi lì a dormire. Purtroppo io in quel periodo, non dormivo neanche più e non accettai. Non fui mai abbastanza riconoscente con lui e questo mi dispiace… anche se è sempre stato amore non corrisposto.

 TOCCARE IL FONDO DEL PRECIPIZIO

 Ero in fase di dimissione ormai, stavo benino e dopo pranzo stavo andando a bere un caffè quando cominciai a tossire, e il fiato non mi tornava. Subito mi sono dovuta sedere e il mio ragazzo che era venuto a trovarmi, ha chiamato aiuto. La fisioterapista mi ha provato subito la saturazione dell’ossigeno e non era normale  ( 88 circa) . Mi hanno portata in stanza con la carrozzina, mi hanno messo l’ossigeno e fatto il cortisone in vena.

Il cuore correva all’impazzata e credevo di non farcela! I valori andavano un po’ meglio ma io mi sentivo malissimo… aspettarono il mattino per farmi una lastra.

Risultato: polmone destro completamente collassato, il famoso pneumotorace.

 Il dottore accompagnato da un’altra dottoressa mi disse che si sarebbe risolto inserendo un

tubicino nelle costole, il drenaggio e mi avrebbero portata subito al polo chirurgico.  Agitatissima, mi trasportarono per la prima volta in chirurgia dove con un anestesia locale nel giro di una decina di minuti inserirono il drenaggio e mi fecero tornare in reparto.

Non funzionò subito perché il drenaggio non era ben posizionato e quindi nel pomeriggio tornai in chirurgia.

Nel frattempo i miei genitori mi avevano raggiunta in reparto.

Mi avevano insegnato la fisioterapia per espandere la zona e per la riabilitazione del

braccio in cui avevano messo il drenaggio. Dicevano che camminare avrebbe aiutato e così piano piano con i miei drenaggi e l’ossigeno mi sono messa in cammino lungo i corridoi. In quel periodo stavano facendo

anche il cambio reparto e per fortuna avevo la stanza con il bagno. 

Altrimenti gli spostamenti sarebbero stati pressoché difficoltosi. Sono stata fortunata da quel punto di vista perché prima dovevo condividere il bagno del settore e le stanze erano molto più piccole e vecchie.

Dopo una settimana e un susseguirsi di lastre e dolori insopportabili, il mio pneumotorace era ancora

stazionario e quindi o dottori cominciavano a cercare strade diverse, e mi proposero un intervento.

Quante ansie, quante attese per quel mio primo intervento! Dolori, debolezza ma per fortuna anche la presenza del mio ragazzo mi facevano compagnia in quei giorni.

Il giorno che dovevo fare l’operazione ero molto tesa ma soprattutto stanchissima dall’attesa e dal digiuno.

Alla sera arrivò il mio turno. L’intervento durò quattro ore circa e andò tutto bene dissero. Quando mi svegliai ero solo confusa e continuavo a lamentarmi e a dire: “ho paura! Ho paura!”.

Anche se non mi ero risvegliata del tutto mi riportarono subito nel mio reparto anziché in terapia intensiva e questo era già un buon segnale.

L’indomani mi svegliai con un drenaggio in più rispetto a prima dell’intervento ma non avevo nessuna sensazione di miglioramento. Dopo la medicazione dei drenaggi e le lastre di controllo, pochi giorni dopo sono stata dimessa.

Era il periodo natalizio, e non lo passai per niente serenamente. I medici mi dissero che ci voleva tempo perché tutto tornasse come prima. Facevo attenzione ad ogni movimento. In particolare ricordo le sensazioni strane nel camminare e fare fisioterapia.

Poi la conferma di quelle stranezze mi fu data alla visita di controllo a un mese di distanza. La dottoressa

vide subito dalla lastra che c’era ancora qualcosa che non si era sistemato, in quel polmone destro. Subito si mise in contatto coi chirurghi. Questi consigliarono di ricoverarmi subito. Io scoppiai a piangere. Non volevo rivivere le stesse paure e dolori che avevo vissuto poco a distanza di neanche un mese. Purtroppo

non avevo scelta. Mi posizionano di un nuovo drenaggio e attendendo per eventuali

miglioramenti, mi rifacevano il ciclo in vena di antibiotico, evitando però il cortisone, che non

permetteva il rimargino della ferita.

Intanto i segni delle cicatrici aumentavano così come i dolori e la mia pazienza diminuiva. Dopo 2 settimane

c’era stato solo un lieve miglioramento ma mi dimisero lo stesso dicendo che visto il

risultato dell’altra volta non avrebbero più tentato altri interventi. Andai a casa un po’ disagiata ovviamente per quella situazione ma mi avevano detto che c’era una piccola

speranza che si rispandesse da solo. Passo dopo passo, assieme agli esercizi che

mi dissero di continuare a fare a casa, (non saltavo mai la fisioterapia) il polmone tornò ad espandersi quasi completamente.

Oggi quando scrivo questi ricordi mi domando come ci sono riuscita.

Ciò che non uccide, fortifica.

“THE SHOW MUST GO ON”

La mia vita universitaria fu breve ma intensa. Il primo anno mi sentivo molto carica, avevo fatto 9 esami e li avevo passati a pieni voti. Neanche le emotisi mi fermavano dal dare un esame.

Il secondo mollai tutto.  Venezia non era proprio il posto adatto alla mia salute. Pioggia, vento, sedi distaccate, vita da pendolare mi avevano creato un forte stress psico-fisico. Non rimpiango affatto la mia scelta comunque. Una bella esperienza e di sicuro ho imparato qualcosa in più da aggiungere al mio bagaglio di viaggio.

L’ASPETTO PSICOLOGICO DELLA MALATTIA

Soffermarsi sull’aspetto psicologico che questa malattia coinvolge è fondamentale. Spesso corpo e anima vanno a braccetto. Non mi sono mai sentita compatita o perdonata in nessun ambito, né dalla mia famiglia né dai miei amici. Il mio aspetto pressoché curato, il sorriso e la mia positività non davano segni di sofferenza.

Si può esser invidiosi di una persona che ha una grave malattia??

Malgrado la mia positività e la mia luce che la maggior parte delle persone riusciva a vedere,

proprio da chi invece dovrebbe esser felice per te, invece vuole spegnerti la luce. L’ignoranza di certe persone ti graffia e ti rimane dentro per sempre anche se provi a perdonarli.

Avrei desiderato un appoggio di un fratello ad esempio.

Sembrerà banale per chi non l’ha vissuto ma ciò che mi è stato sempre vicino anche quando ero in ambulanza, è stato proprio l’immaginazione di un ragazzo che mi amasse, oltre alla piacevole sensazione che mi trasmetteva la mia danza.

Quando ero in chirurgia toracica a Padova, dopo il trapianto prima ancora di riuscire a camminare, mi dedicavo allo stretching a letto. Poi il mio comodino era pieno di foto e ricordi di danza che mia madre e le mie amiche con gioia e orgoglio mi avevano portato.

 A volte sembra che manchi il coraggio per fare le cose che ci piacciono di più, perché abbiamo paura del fallimento, delle delusioni, delle perdite. Evitare di mettersi in gioco, evitare i propri sogni… significa “sopravvivere e non vivere”.

FLASH PRIMA E DURANTE IL TRAPIANTO

Ed ora siamo giunti alla fase finale. Mi soffermerò solo su alcuni punti decisivi.

Mia madre era appena scesa a bere il caffè alle macchinette dopo pranzo, il suo ovviamente, io ormai stentavo a tenere gli occhi aperti. Mi stavo riposando un po’ dalla grande fatica che facevo a respirare e poi mi svegliai di colpo come a soffocare e subito suonai il campanello e in breve tutti i medici, fisioterapisti e infermieri, furono nella ma stanza. Subito dopo arrivò la mamma e poi anche la rianimazione. Fu tutto veloce, arrivò mio papà che mi accarezzò il piede e poi mi addormentai. Non so per quanto ma poi mi dissero che mi intubarono e il giorno dopo ero una macchina.

La macchina ECMO, circolazione extracorporea ormai non faceva neanche più il suo lavoro.

Nemmeno quella riusciva ad ossigenarmi più il sangue. La dottoressa della chirurgia ha voluto farmi

trasferire a Padova anche prima che arrivassero gli organi, forse per diminuire i tempi di trasporto.

Mi trasportarono con un’ambulanza speciale, sempre a mia completa insaputa dato il mio stato.

Ricordo le prime voci che sentivo: le infermiere di Padova si chiedevano come mai avessi ancora lo smalto rosso.

Poi la mia reazione quando la vidi la dottoressa di Padova: “Ma tu che ci fai qui?”.  Le chiesi.

Non avevo capito di essere a Padova. Nessuno me l’aveva spiegato e anche se cercavano di farlo, io non volevo crederci.

La dottoressa mi disse: “Ciao Beatrice, hai fatto il trapianto”.

Chissà, forse volevano rasserenarmi e magari tutto sarebbe funzionato meglio…  Pensavo fortemente che volevo innamorarmi ancora, ballare e…

L’amore ha vinto.

APPUNTI DI VITA  –  LA FASE SUCCESSIVA AL TRAPIANTO

 Quante persone speciali mi hanno aiutato in questo percorso! Tutti a “lavorare” per me! Mi hanno fatto sentire come una regina!

Ora che sono a casa le persone continuano a farmi complimenti e ricordarmi quanto ne è valsa la pena!

Solo dottori e i trapiantati possono immaginare com’è stata dura la mia avventura, emozionandosi talvolta… al contrario amici, conoscenti e parenti non possono comprendere la profondità di ciò che mi è accaduto in questo viaggio verso il trapianto.

Non capita a tutti, per fortuna di fare “il giro della morte”: così l’hanno definito in rianimazione o di vedere la famosa “luce gialla-bianca”, i flash della mia vita,  sentire la musica, e il progetto del trapianto. Mi sento molto diversa da una persona qualunque e sinceramente, anche se può sembrare una follia, mi fa paura tornare ad esser come loro, a non meravigliarmi più delle cose quotidiane e magari a lamentarmi di un mal di testa.

L’importante ora è che ho la possibilità di respirare senza tossire e tutto il resto… una nuova BEATRICE.  Ricordo le cose assurde che negli ultimi mesi ho dovuto affrontare. Mi viene in mente ad esempio il ricovero in rianimazione dopo il trapianto.

Eravamo pochi pazienti e fra questi ricordo un ragazzino “Ale”. Lui tifava per me e io l’avevo soprannominato “Angioletto”. Un altro signore che mi ha colpito fra i presenti era Stefano , un uomo  in coma da parecchio tempo , passavo il tempo a fissarlo, come se così potessi aiutarlo , nella speranza che prima o poi mi avesse parlato.

Certi ricordi non si cancelleranno mai dalla mia mente, nonostante non potrò mai sapere con esattezza quale sia il limite della mia fantasia e quale quello della verità. Ad esempio la mia chiamata ai carabinieri, in seguito a una minaccia da parte di infermieri e dottori di sedarmi per poi espiantarmi gli organi nuovamente. Questo speravo fosse solo un incubo, ma poi sia un’infermiera dell’ospedale dov’ero in cura per la fibrosi cistica, sia il mio cellulare testimoniarono l’avvenuta chiamata.

Questi sono solo dettagli.

Il passato deve servire ad apprezzare il presente, che è un dono.

RINGRAZIAMENTI

Devo ringraziare le numerose persone che hanno contribuito alla mia resurrezione:

il mio angelo che mi ha donato gli organi, le mani del chirurgo, tutto lo staff della rianimazione e della chirurgia toracica, il reparto di fibrosi cistica in cui sono cresciuta e  mi ha curata al meglio fino a 24 anni, la mia famiglia, i miei amici e anche chi non conoscevo che pregava per me e soprattutto Dio. Dio che ogni giorno mi mette alla prova e mi ha dato una seconda vita.

Il percorso del trapianto è una salita ripida. Una vera e propria montagna da scalare… ci sono molti ostacoli, ma quando si arriva in cima si può prender fiato e guardare il panorama.

Beatrice Stipa (trapiantata a Padova il 18/07/2013)